Allora dicevamo che con questa consapevolezza si arriva anche alla consapevolezza che la festa di Pentecoste non conclude – diciamo così – ogni anno nella Chiesa il ciclo pasquale delle feste, ma è una festa che potremmo dire in un certo senso segna la conclusione della manifestazione dell’economia di salvezza. È proprio quello che dona agli uomini, potremmo dire, quel dono che riassume e perfeziona tutti gli altri doni.
Vediamo allora come viene detta questa verità: “Celebriamo con gioia, o fedeli, questa festa che viene dopo le altre e tutte le conclude: la Pentecoste, il compimento della promessa e del tempo stabilito, perché in essa il fuoco del Paraclito è sceso sulla terra, sotto l’aspetto di lingue, ha illuminato i discepoli e li ha resi celesti iniziati…”. Cosa vuol dire “celesti iniziati”?, vuol dire che li ha introdotti alle realtà celesti, alle realtà del cielo, cioè ha donato loro sulla terra già, potremmo dire, un anticipo, una caparra della vita divina.
C’è poi un bellissimo richiamo all’episodio della Pentecoste che accosta questo momento a quello che era capitato durante l’esodo, quando il popolo di Israele era uscito dal paese d’Egitto. E c’è anche un richiamo al Battesimo e, quindi, anche alla croce di Cristo. Ecco, questo è proprio un modo di esprimere questo compimento che lo Spirito Santo porta. Dice così: “La sorgente dello Spirito, scendendo sui figli della terra, dividendosi in fiumi di fuoco, ha spiritualmente irrorato i discepoli con la sua luce…”
Qui c’è forse un richiamo anche ai quattro fiumi che uscivano dal paradiso terrestre e irrigavano tutta la terra secondo quello che si dice nel libro della Genesi e qui, in questo momento è la sorgente dello Spirito Santo che irriga tutta la terra spiritualmente con la sua luce.
E continua: “…il fuoco è divenuto per loro come una nube colma di rugiada, come una fiamma che li illumina e si effonde in pioggia…”
Sembrerebbero dei controsensi: come può una fiamma trasformarsi in pioggia e come fa un fuoco a diventare una nube che rinfresca con la sua rugiada. Se però ci pensiamo bene ricordiamo che nell’esodo si legge che, durante il peregrinare del popolo nel deserto il Signore che lo guidava di giorno assumeva l’aspetto di una nube che faceva ombra e di notte di una colonna di fuoco che segnava la strada. Ecco che la liturgia è attenta a sottolineare che con la Pentecoste è come se si compisse l’ultimo atto della liberazione più vera, dell’esodo nuovo, appunto l’esodo della Pasqua, il passaggio dalla morte alla vita.
E poi dice: “…è così che noi riceviamo la grazia, mediante il fuoco e l’acqua…”
Che cosa sono il fuoco e l’acqua? Ricordate che san Giovanni Battista diceva che, quando fosse arrivato, il Messia avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Però il Battesimo si compie con l’acqua, per cui noi riceviamo la grazia mediante il fuoco e l’acqua. Ecco, il Battesimo dal giorno della Pentecoste diventa il Battesimo in Spirito Santo e fuoco. Il fuoco sono le lingue di fuoco date agli apostoli.
Un altro bellissimo tropario dice ancora: “Gli innamorati del Salvatore sono stati colmati di gioia, hanno ripreso coraggio quanti prima erano timorosi, oggi che il santo Spirito è disceso dall’alto sulla casa dei discepoli…”
Ecco la trasformazione inattesa, inimmaginabile che avviene: hanno ripreso coraggio quanti prima erano timorosi, perché i discepoli escono dal cenacolo dove si erano rinchiusi proprio per paura, dopo la morte del Signore prima di avere l’annuncio della risurrezione.
Ma ancora qua con una bellissima espressione i discepoli vengono chiamati “Gli innamorati del Salvatore”: è una definizione splendida. Ma anche questa definizione è comprensibile dopo le apparizioni del Risorto, dopo che lo Spirito Santo perfeziona nel cuore dei discepoli l’amore per Cristo, perché appunto prima c’era timore, c’era anche probabilmente come una diffidenza, perché sia negli Atti degli Apostoli sia nel vangelo di Luca viene detto apertamente che qualcuno di loro dubitava anche nelle manifestazioni di Gesù dopo la Pasqua.
Ed ecco appunto come lo Spirito è anche la forza che convince interiormente e che vince: “…le lingue infatti, si erano ripartite su di loro mostrandosi come di fuoco, senza tuttavia bruciarli, ma piuttosto irrorandoli di rugiada”.
C’è poi un ultimo tropario che in questo senso è molto interessante, perché stabilisce un parallelo esplicito tra la croce e la Pentecoste. Perché questo? Perché quando, dicono i vangeli, Gesù emise lo spirito morendo sulla croce, l’atto successivo alla morte di Gesù è quello del soldato che gli trafigge il costato con la lancia. E dal suo costato sgorgano sangue e acqua, simbolo del Battesimo e dell’Eucarestia.
Sentite allora cosa dice questo tropario: “Mescolando alla parola il divino lavacro di rigenerazione (il Battesimo) a causa della mia natura composita (cioè noi siamo fatti di corpo e anima e, quindi, la Parola si rivolge all’anima, mentre il lavacro del Battesimo al nostro corpo), tu lo riversi su di me come un fiume che inonda dal tuo immacolato fianco trafitto, o Verbo di Dio, confermandolo con l’ardore dello Spirito”.
Ecco, abbiamo sempre questa arditissima contrapposizione di termini, perché l’ardore dello Spirito si esprime nel fiume che esce dal fianco trafitto. Quindi, ancora una volta è acqua, ma è un’acqua ardente, è un’acqua che ha in sé una forza, una potenza. Ecco, tutto questo che cosa produce?
Abbiamo visto la salvezza, la conoscenza, ma abbiamo anche quella sinfonia divina che vede Cristo – usiamo questa immagine – come il direttore d’orchestra, come Colui che con il dono dello Spirito riesce a creare anche una vera unità d’intenti nei discepoli. Ecco cosa dice:
“Dopo la risurrezione dal sepolcro, o Cristo, e la tua ascesa alle altezze celesti, hai inviato ai discepoli la tua gloria, o pietoso, rinnovando in loro uno Spirito retto (uno spirito quindi di giustizia, di verità, di consapevolezza): e loro, dunque, come una cetra melodiosa, o Salvatore, hanno reso per tutti ben distinti gli echi sonori della tua divina economia”.
Potremmo dire che gli apostoli che ricevono lo Spirito cantano all’unanimità: sono diversi, ciascuno con la sua personalità, con la sua storia, con il suo temperamento, ma rendono intelligibili per tutti e ben distinti, cioè scandiscono bene l’economia divina, cioè il piano di Dio e tutti annunciano l’unico disegno di salvezza in Cristo.
E ancora dice: “Tutte le cose piegano il ginocchio davanti allo Spirito Paraclito, e davanti al Figlio del Padre, che al Padre è per natura perfettamente unito; esse riconoscono nelle tre persone una sola essenza”. Ecco l’adorazione delle creature che riconoscono l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
E questa consapevolezza di un compimento, di una perfezione dà un coraggio, una intimità, una familiarità con Cristo, che permette di chiedere come si chiederebbe appunto a uno sposo.
Sentite che meraviglia questo tropario, che ci fa capire dove la consolazione dello Spirito va a curare, a lenire e ad aiutare: “Dai conforto pronto e stabile, o Gesù, ai tuoi servi, quando i nostri spiriti sono prostrati. Non separarti nelle tribolazioni dalle nostre anime; non allontanarti nelle avversità dai nostri cuori: ma previenici sempre. Avvicinati a noi, avvicinati, tu che ovunque sei. Come stavi sempre insieme ai tuoi apostoli, così unisciti anche a quelli che ti amano, o pietoso, affinché, a te uniti, noi celebriamo e glorifichiamo lo tuo Spirito tutto santo”.
Qui ci si potrebbe domandare perché mai si chiede a Cristo l’unità? Non la si chiede allo Spirito? Ma, appunto, capite?, non possiamo dividere! È Cristo che dà conforto ai suoi servi, è Cristo a cui si chiede di non separarsi dalle nostre anime, di non allontanarsi dai nostri cuori tribolati; a Lui chiediamo di prevenirci sempre, cioè di mostrarsi prima che non Lui si allontani da noi, ma noi ci allontaniamo da Lui. Ma la cosa interessante è proprio che lo Spirito non fa altro che rendere costante la memoria di Cristo. In altre parole non c’è nessuna concorrenza tra lo Spirito e Cristo: lo Spirito ricorda l’agire di Cristo e Cristo manda lo Spirito, perché compia l’esperienza degli apostoli.
Infatti, dice così: “Per far ricordare le parole di vita udite dal Padre e dette agli apostoli, Cristo manda lo Spirito a posarsi su di loro in forma di lingue di fuoco. Cantando ti benedice il creato, che prima lontano ed estraneo a te, gode ora della tua amicizia”.
Interessante, perché vedete come qua si dice che Cristo manda lo Spirito per far ricordare – ci aspetteremmo “le sue parole” – e invece dice “le parole di vita udite dal Padre e dette agli apostoli”, perché Gesù nel Vangelo di Giovanni dice: Io vi ho detto tutto quello che ho udito dal Padre mio. Potremmo dire così: non c’è soluzione di continuità, non c’è distacco tra il dono di sé che continuamente Cristo fa al Padre e il dono che il Padre fa al Figlio, cui dice tutto, e il dono che lo Spirito fa di sé per dedicarsi, per – potremmo dire – rendere presente Cristo, lo Spirito è totalmente devoluto, dedicato a Cristo. Nello stesso tempo Cristo lascia allo Spirito il compito di fare memoria. C’è proprio questa continua compenetrazione, ma anche questa continua compenetrazione delle volontà.
E ancora: “La bocca colma di Spirito dei profeti, ha cantato, o Re, la tua venuta nella carne: tu che mandi ai credenti lo Spirito che procede dal seno del Padre, come te increato, come te creatore e con te regnante, perché sia reso culto alla tua incarnazione”.
Allora, lo scopo anche della venuta dello Spirito è di riaffermare la gloria dell’incarnazione di Dio, perché appunto è solo il Figlio che si è incarnato, che ha assunto la nostra carne, per dimostrarci, per annunciarci questa comunione che Dio stabilisce con noi. Ecco, a servizio di questo avvenimento c’è tutta la potenza dello Spirito.
È molto interessante che in questo tropario la liturgia aggiunga al lamento delle donne anche il ricordo del preannuncio che Gesù aveva fatto della sua risurrezione. Dunque, è come se le donne, mentre vanno al sepolcro, si rendessero conto dell’impossibilità che Gesù rimanga preda della morte e, quindi, il loro andare al sepolcro è già un invocare, un desiderare la risurrezione.
Anche riguardo a Giuseppe e a Nicodemo abbiamo uno splendido stichiròn che riprende in termini anche molto affettivi e poetici quello che avviene a loro: «Giuseppe insieme a Nicodemo depose Te dal legno e, contemplandoti morto, nudo, senza una tomba (è il momento dell’estrema umiliazione, dell’estremo abbassamento di Cristo) iniziò il lamento pieno di compassione e dolente diceva: “Ahimè, Gesù dolcissimo, poco prima il sole, vedendoti pendere dalla croce, si ammantava di tenebra; la terra si agitava per il timore; si lacerava il velo del tempio, ma ecco io ora Ti vedo per me volontariamente disceso nella morte. Come potrò seppellirti, Dio mio? Come Ti avvolgerò in una sindone?, con quali mani toccherò il tuo corpo immacolato?, o quali canti potrò mai intonare per il tuo esodo pietoso? Magnifico i tuoi patimenti, inneggio alla tua sepoltura insieme alla tua risurrezione, acclamando: Signore, gloria a Te!”». Quindi, si dice che anche a Giuseppe di Arimatea e a Nicodemo il Cristo morto, deposto dalla croce nelle loro braccia, suscita l’attesa della risurrezione.
Di seguito, la liturgia – con un gioco di parole in greco e in slavo, intraducibile in italiano – dice che le donne diventano “le annunciatrici degli annunciatori”, annunciano il Vangelo proprio a quelli che dovranno annunciare: «Alle donne che erano con Maria e che, venute con aromi, si chiedevano ansiose come realizzare il loro scopo, apparve la pietra già tolta e un giovane divino che dissipò il turbamento delle anime loro: “È risorto – diceva – Gesù, il Signore. Annunciate ai discepoli, ai suoi annunciatori, di correre in Galilea e lo vedrete risorto dai morti come datore di vita e Signore”». Annunciate ai discepoli annunciatori: ecco perché nella tradizione orientale le mirofore vengono chiamate le “evangelizzatrici degli evangelizzatori”. E questo dice anche l’importanza del loro ruolo per tutta la tradizione della Chiesa d’Oriente.