“Gioite o popoli, e conventitevi, Dio è con voi”:
lo stupore fecondo del Natale

Riflessioni di Mons.Francesco Braschi (Radio Maria, 1 Dicembre 2020)
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​In questo incontro vogliamo soffermarci a contemplare il cammino verso la festa del Natale, in particolare considerando come la Chiesa d’Oriente ne vive la preparazione.

La preparazione al Natale è un dato comune tanto alla liturgia d’Oriente come a quella d’Occidente. La liturgia d’Occidente conosce il tempo dell’Avvento della durata di quattro settimane nel rito romano e di sei settimane nel rito ambrosiano. In altre parole, c’è la consapevolezza che è necessario prepararsi per accogliere degnamente la venuta del Signore, venuta che accade appunto nella festa del Natale.

 

Icona del Natale

Preparazione al Natale

Anche la Chiesa d’Oriente, in particolare quella di tradizione bizantina, conosce un tempo di preparazione che inizia intorno al 14 novembre, e dunque copre un ambito di sei settimane, tanto che viene chiamata la Quaresima di preparazione al Natale e queste sei settimane di preparazione hanno anch’esse come contenuto fondamentale proprio l’idea di un cammino, di un’ascesa: come gli antichi ebrei salivano a Gerusalemme per le grandi feste nel tempio, allo stesso modo i cristiani sono invitati a “salire” verso la festa del Natale.

Perché “salire”? Il perché lo diranno poi le antifone, i tropari che si recitano e si cantano nei giorni di Natale: perché bisogna purificare lo sguardo, bisogna essere capaci di vedere; perché bisogna essere capaci di stupirsi e di gioire, ma la gioia viene solo dopo che si è riconquistata la capacità di stupirsi come i bambini. Da che cosa sono nutriti questo stupore e questa gioia, di quale consapevolezza bisogna nutrirsi crescendo in essa per arrivare al Natale?

Ecco, diciamo che nel rito bizantino la preparazione remota è quella che inizia dal 14 novembre e dal mattino del 21 novembre comincia a cantare alcune antifone che saranno poi antifone del canone del Natale. Quindi è come un cominciare a fare memoria, un cominciare ad anticipare il contenuto della festa, mentre nello stesso tempo ci sono poi dei temi particolari che riempiono il tempo di attesa. Ricordiamo in particolare la presenza di alcune feste importanti di santi: pensiamo soprattutto alla festa di san Nicola, che cadendo il 6 dicembre, cade sempre durante il periodo di preparazione al Natale; o anche il giorno della festa di sant’Andrea, il 30 novembre. Anche questo giorno ha una caratterizzazione che lega questa festa all’arrivo del Natale.

Dobbiamo infatti dire una cosa: la liturgia bizantina non ha il principio della liturgia romana post-conciliare che prevede per es. che, quando si festeggia un santo, si festeggia quello e soltanto quello. Potremmo dire che liturgia bizantina ha un principio “accumulativo”, così come l’antica liturgia ambrosiana: accanto alla celebrazione del santo principale puoi avere delle antifone, dei salmi, dei responsori per ricordare che in quel giorno si celebrano anche altre feste e altre memorie. La liturgia bizantina fa questo, per cui la presenza quasi in sottofondo, quasi come una tonalità continua di queste antifone che già fin dalla metà di novembre annunciano l’arrivo del Natale, è arricchita ulteriormente da tutte le altre celebrazioni che riempiono questo mese e mezzo.

Ma ora vorrei fermarmi soprattutto su due momenti della preparazione al Natale, due momenti particolarmente importanti: le due domeniche che precedono il Natale e che vengono dedicate una alla memoria dei progenitori secondo la carne di Gesù (è la domenica che cade vicino all’11 dicembre) e la seconda domenica, la domenica appena precedente la natività di Cristo (quella attorno al 18 dicembre) è quella in cui si fa memoria di tutti i padri che dall’inizio del mondo si sono resi graditi a Dio, da Adamo fino a Giuseppe.

Allora, qual è la ricchezza di queste due domeniche che hanno anche alcune antifone e personaggi in comune? Che sguardo portano queste due domeniche? Ecco, potremmo dire che la prima caratteristica è quella di dare un enorme valore alla storia prima di Gesù. La nascita di Gesù – che pure è un avvenimento straordinario, inatteso, davanti al quale non si può non stupirsi – riassume in sé la storia di tutti i progenitori, cioè tutta la storia che dal momento della creazione fino alla nascita di Cristo si è svolta sotto lo sguardo di Dio e si è svolta con un intreccio di libertà: la libertà dell’uomo, che pure cade e si mette in una posizione di inimicizia nei confronti di Dio, ma anche la libertà misericordiosa di Dio che continuamente cerca di stare dietro all’uomo, di rincorrerlo, di avvicinarsi a lui, di riconquistarlo a sé. Ecco la prima caratteristica che noi ricaviamo è questa attenzione al tema della storia.

È un’attenzione particolarmente importante per noi, particolarmente preziosa soprattutto in questo tempo, perché la nostra considerazione oggi è una considerazione che non ha più il senso della storia. Noi oggi ci mettiamo a guardare l’attualità, siamo tutti dipendenti dalle ultime notizie, anche questo tempo così particolare in cui sperimentiamo tutta la nostra fragilità, è comunque un tempo che viviamo senza memoria, al quale siamo arrivati in gran parte impreparati proprio perché nessuno di noi più si ricordava la situazione di debolezza, di pestilenza, di malattia. Ecco, questo è solo in segno di una modalità di stare nel mondo, nella realtà, dove sempre più frequentemente ci riteniamo i primi a fare qualunque esperienza: abbiamo dimenticato il senso della storia.

Ecco allora che non abbiamo più memoria di cosa significhi stare davanti a momenti in cui la morte diventa una prospettiva sempre più vicina; neanche più ci ricordiamo di come i nostri antenati avevano imparato a stare in queste situazioni sviluppando uno sguardo sulla vita e sulla morte sicuramente meno impaurito del nostro, meno sprovveduto, meno incapace di articolare una risposta, mentre noi ci lasciamo come paralizzare dalle difficoltà, dalle fatiche che viviamo.

E, allora, che la Chiesa bizantina ricordi la storia dei progenitori, ricordi che Gesù arriva in un mondo che ha tanti secoli alle sue spalle, in un mondo che ha già visto vicende di peccato e di liberazione, che ha già visto la presenza di Dio a tante storie umane, ci aiuta proprio a ricordare questo aspetto: non c’è nessuno degli uomini e delle donne che nascono a questa terra che sia insignificante agli occhi di Dio. Ma non solo che non sia insignificante perché Dio decide di dare a lui un valore, ma perché anche questa persona, anche questo uomo, chiunque egli sia, ha un suo ruolo, un suo significato all’interno della storia di salvezza che Dio vuole costruire.

Questo è anche il punto di partenza per la considerazione della misericordia di Dio, perché lo sguardo sui progenitori non è soltanto lo sguardo sui santi padri che sono stati graditi a Dio – questo lo mette in luce l’ultima domenica prima di Natale -, ma la seconda domenica prima di Natale è lo sguardo sui progenitori, cioè su tutti quelli che sono vissuti prima di Cristo nella storia della salvezza; e noi sappiamo bene che tra di loro non ci sono soltanto dei santi: tra di loro ci sono anche delle figure controverse, delle persone che hanno conosciuto il peccato, la lontananza da Dio, la ribellione a Lui. Questo, allora, ci fa riflettere su un altro aspetto: la venuta di Cristo è una venuta che ri-offre, che ri-propone la salvezza non perché noi ce la meritiamo, non perché noi siamo capaci di comprenderla e di accoglierla, ma a partire dalla smisuratezza dell’amore di Dio.

Allora, ecco la prima domanda che il senso del periodo prima di Natale pone a ciascuno di noi.

Lo dice molto bene padre Aleksandr Šmeman, sacerdote e teologo russo vissuto negli Stati Uniti durante il secolo scorso, il quale introduce così il tempo prima del Natale: «La prima cosa che vuole donarci il tempo di attesa e preparazione credo che sia proprio questo: guardate come siamo lontani!… Ci sembra che la nostra vita così rumorosa, fuggente, attenta unicamente all’esteriorità sia la vera vita da vivere. Ecco, la prima cosa che dobbiamo percepire (nell’avvicinarsi del Natale) è la distanza che ci separa dalla vita vera… Infatti, si è perduta, è svanita chissà dove, questa vita vera che si percepisce con intensità nell’infanzia – una vita colma di purezza, bene, amore, felicità. L’abbiamo persa, e intorno a noi non vi sono che astio e stanchezza, invidia e indifferenza… In questa notte gelida la nostra anima è stretta in una morsa di freddo».

E noi oggi potremmo dire che a questo si aggiunge la paura e lo smarrimento. Ma la preparazione al Natale è un tempo che ci dice: «Eppure, la vita vera esiste; sopra di noi splende la stella che chiama alla luce, all’amore, a rendere grazie. Ci chiama ad abbandonare le vanità, a rientrare in noi stessi, a vedere con gli occhi dello spirito quello che ormai abbiamo quasi disimparato a vedere…»

Ecco, la prima domanda che il tempo prima di Natale ci pone è allora: «Ma tu, di che cosa vivi? Hai ancora qualche cosa da aspettarti? Hai soprattutto la disponibilità ad accogliere un dono che ti verrà fatto, che sai già che sarà più grande di tutte le tue attese? Oppure vorresti costringere anche Dio nella limitatezza dei bisogni che ti accorgi di avere a volte, o dei quali tante volte sei incosciente, [poiché] percepisci soltanto un vago senso di disagio»?[1].

Ecco, questo è il primo aspetto della preparazione al Natale.

[1]     A. Šmeman, I passi della fede – Conversazioni domenicali, passim, ed. Casa di Matriona, p. 54.

La domenica dei progenitori

E la Domenica dei Progenitori, questo ricordo di tanti uomini e donne che sono vissuti prima di Cristo, ci fa vedere qualcosa di questa povertà umana che viene presa, accolta da Dio e trasformata in una vita di salvezza. Allora, vediamo chi sono questi santi progenitori che vengono guardati e che diventano come un esempio per ciascuno di noi.

Per esempio, di Adamo, il primo ad essere ricordato, si dice: «Onoriamo Adamo, il primo padre che è stato onorato dalla mano del creatore. È divenuto progenitore di noi tutti, e riposa con tutti gli eletti nei tabernacoli celesti». “Tabernacoli celesti” è un modo per dire nelle tende del cielo, cioè nel paradiso. Già questo onore riservato ad Adamo non può non colpirci. È vero Adamo è il padre di tutto il genere umano, ma è anche colui che ha peccato, colui che ha buttato via la bellezza, la beatitudine, l’unione con Dio in cui era stato creato, eppure di lui la liturgia bizantina dice: «Riposa con tutti gli eletti nelle tende del cielo».

È già questo un annuncio di salvezza, è l’annuncio che Dio non si lascia fermare dal peccato, non si lascia volgere a una vendetta senza appello, ma questa antifona della liturgia è come se ci dicesse: «Guarda che stai per celebrare quella festa, il Natale che ha contribuito a ridare la gioia, la beatitudine perfino ad Adamo».

O ancora: «Il Dio e Signore di tutte le cose accolse Abele che offriva doni con anima nobilissima e, quando fu ucciso da mano assassina, lo portò verso la luce come martire divino». Anche Abele non è un personaggio che faccia fare all’umanità una grande figura, perché Abele è la prima vittima di un fratello, è il primo uomo assassinato. Eppure, anche questo uomo assassinato diventa un martire divino, portato verso la luce, altra caratteristica del Natale. Il Natale è capace di ridare significato persino a una morte ingiusta, a una morte che sembra soltanto male.

O ancora, abbiamo il ricordo di Set, il figlio che Adamo ed Eva ebbero dopo la morte di Abele e la fuga di Caino. Di Set la Bibbia dice che cominciò a invocare il nome del Signore. Potremmo dire che Set, dopo la morte di Abele e il fallimento di Caino, rappresenta la ripresa del cammino dell’umanità, e dunque anche la possibilità di avere un dialogo che continua con Dio, una storia di salvezza. Dice, infatti, la Bibbia al capitolo 4 della Genesi: «A Set nacque un figlio che egli chiamò Enos. Allora si cominciò a invocare il nome del Signore». Ecco, la ripresa del rapporto con Dio. E si dice così: «Si canta nel mondo l’ardore di Set per il creatore. Egli lo ha realmente servito con condotta irreprensibile dall’intimo dell’anima ed ora grida dalla regione dei viventi “Tu sei il Santo, Signore!”». E poi, ancora, «Con la bocca, con la lingua, con il cuore, il mirabile Enos, il figlio di Set, sperò nel suo spirito di invocare con intelligenza divina il Dio sovrano dell’universo e, avendo vissuto in terra in modo a Lui gradito, ne riportò gloria». Ecco, abbiamo la ripresa dell’umanità dopo il peccato non solo di Adamo ed Eva, ma anche di Caino nei confronti di Abele.

E ancora andiamo avanti. Anche Noè dice qualcosa del Natale: «Offriamo una lode a Dio onorando con inni Noè, vero giusto, adorno di tutti i divini comandamenti. Ha mostrato di essersi reso gradito a Cristo. Vedendo Dio la nobiltà del tuo animo, la tua integrità, la tua perfezione in tutto, o Noè, ti rese in realtà principe del secondo mondo, colui che gli ha salvato il seme di ogni stirpe dopo l’esperienza del diluvio, come Egli stesso aveva ordinato».

Qui è interessante notare che anche Noè dice qualcosa di Cristo, perché Noè è colui che è capace di salvare il seme di ogni stirpe dopo l’esperienza del diluvio e, dunque, preannuncia la capacità di Cristo, come Lui stesso dirà nel Vangelo, di essere venuto a salvare ciò che era perduto e nel vangelo di Giovanni dice: «Non voglio che nulla di ciò che il Padre mio mi ha dato si perda». Ecco, Noè anticipa l’attitudine di Cristo alla misericordia.

Procedendo ancora troviamo la figura di Abramo: «Abramo fu fatto degno di vedere il giorno del suo creatore e fu ricolmo di gioia spirituale. Onorandolo, dunque, con rettitudine di mente, proclamiamolo tutto beato come fedele servo di Dio». E poi aggiunge: «O Abramo beatissimo, tu hai contemplato la Trinità per quanto è permesso all’uomo e Le hai offerto ospitalità come sincerissimo amico. Hai così ottenuto la ricompensa della singolare ospitalità con il divenire in forza della fede padre di genti senza numero». Infatti, di Abramo ricordiamo come alle querce di Mamre incontrò tre angeli, o tre viandanti, come si dice appunto nel libro della Genesi, ai quali imbandì un pranzo con la sua ospitalità e dai quali ebbe poi l’annuncio della nascita del figlio Isacco. Anche in questo caso Abramo è colui che ha la prima manifestazione, ancora adombrata, ancora nascosta, ma reale, della Santa Trinità e, dunque, dirà poi Gesù nel vangelo: «Abramo vide il mio giorno e ne gioì». Quindi Abramo, così lontano, 1800 anni prima della nascita di Cristo, è già colui che è capace di gettare un ponte verso la gioia del Natale. Ecco, questa domenica seconda prima della Natività ci mette davanti queste ed altre figure. E soprattutto è proprio questo l’aspetto interessante: non è semplicemente un catalogo di storie pie o di esempi virtuosi, ma piuttosto è la storia di come Dio ha preparato la venuta del suo Figlio quasi abituando a poco a poco gli uomini a riconoscere i tratti fondamentali del modo in cui Lui agisce. Allora, potremmo dire che tutta la storia prima di Cristo diventa come un insieme di tante pietre che costruiscono una casa, la casa perché il Figlio di Dio possa porre la sua dimora in mezzo agli uomini. In altre parole, qua si vede già l’inizio dell’incarnazione, che non è soltanto il divenire uomo del Figlio di Dio, ma è il suo abbassamento, il suo svuotamento come dice san Paolo nella lettera ai Filippesi. E il suo svuotamento è proprio per riuscire a raggiungere ciascuno di noi là dove noi per primi non vorremmo stare a contatto con la nostra povertà. Cristo invece arriva fin lì, e quindi questo suo Natale non è soltanto una manifestazione di tenerezza, ma innanzitutto lo stupore per una misericordia inaudita.

La domenica prima di Natale

La domenica appena prima del Natale è quella in cui si legge un brano fisso del Vangelo, quello della genealogia di Gesù. È un brano che si legge anche nelle liturgie romana e ambrosiana, ma è un brano che quasi mai viene spiegato e nemmeno ascoltato con grande attenzione, perché lo si sente soprattutto come un lungo e noioso elenco di nomi. Ecco, questa sera vorrei osare provare a leggere insieme con voi questo brano, soffermandoci almeno sui nomi principali che a noi dicono poco se non abbiamo un’ampia consuetudine con la Bibbia, ma che ci aiutano a capire ancora di più perché l’arrivo del Natale ci colma di gioia e di stupore.

Il brano, versetti 1-16, è tratto dal primo capitolo del vangelo di Matteo:

«1Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo.»

Sappiamo che la genealogia era un vero e proprio genere letterario, perché laddove non esistevano le anagrafi con i certificati di nascita, narrare chi erano i propri antenati significava dire già chi sono io: io sono uno che ha una storia, uno che è il prodotto di una serie di storie di uomini con le loro luci e le loro ombre. Ecco, Cristo stesso, diventando uomo, si sottomette a questa legge: diventa anche Lui uno che verrà guardato e giudicato in base ai suoi antenati, in base alla famiglia da cui discendeva. Sappiamo che verrà chiamato il figlio del carpentiere, alludendo a Giuseppe, ma soprattutto in questo Cristo condivide con noi un dato della vita che spesso per noi è faticoso. Ciascuno di noi nasce in una condizione precisa, che non è soltanto legata alla ricchezza o meno della propria famiglia, ma è soprattutto una storia affettiva, una storia di parenti dai più prossimi ai più lontani che hanno segnato le vicende della mia famiglia, che mi hanno lasciato delle eredità pesanti, che mi hanno lasciato dei doni, che a volte mi sembra che mi abbiano determinato, un atteggiamento della mia famiglia che magari vivo come una gabbia, come qualcosa di faticoso.

Ecco, Cristo viene con una genealogia alle spalle, prendendo su di sé una storia che arriva fino ad Abramo, proprio perché in questo modo ci vuole dire che Lui è il Signore anche di queste storie ed è capace di liberarci anche dalle fatiche e dai pesi che ci portiamo addosso per la storia familiare in cui siamo capitati.

«2Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli…»

Abramo è colui che dice di sì al Signore che lo chiama a uscire dalla sua terra, ma Abramo è anche colui che si fida di Dio, ma nello stesso tempo è come se volesse continuamente preparare già lui a Dio il modo di compiere la sua promessa. Abramo è sterile, non ha figli e questa era la più grande sventura per un uomo del suo tempo e, quando Dio gli promette una discendenza che però tarda ad arrivare, ecco che Abramo le prova tutte per costruirsi lui un proprio discendente. Prima vuole adottare come figlio il capo dei suoi servi e chiede al Signore di benedirlo. Ma il Signore gli dice: «No, uno nato da te sarà tuo figlio». Poi si fa prestare da Sara una delle sue schiave e la mette incinta, perché secondo le consuetudini del tempo questo permetteva di avere una discendenza. Ne nasce Ismaele, che Sara, gelosa, vuole cacciare insieme ad Agar, la schiava da cui è nato. E Abramo dice al Signore: «Se almeno Ismaele trovasse benevolenza ai tuoi occhi!». Ma il Signore dice: «No, uno nato da te e da Sara sarà il tuo discendente». Finalmente, in seguito all’apparizione di questi tre angeli alle querce di Mamre ci sarà la gravidanza di Sara e la nascita di Isacco.

Isacco è una figura molto più debole che non Abramo, una figura quasi di raccordo tra Abramo e Giacobbe, eppure anche Isacco fa parte della schiera di antenati di Cristo. Giacobbe è colui che nasce già in conflitto con il suo gemello Esaù. Giacobbe è colui che con un sotterfugio, con un inganno, orchestrato insieme alla madre, riesce a carpire la benedizione da suo padre Isacco e per tutta la vita dovrà scappare dal fratello che vuole vendicarsi per essere stato derubato della primogenitura.

Poi «Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» e tra questi c’è anche Giuseppe, che per invidia venne venduto dai suoi fratelli come schiavo in Egitto. Ecco, Gesù prende su di sé questa storia familiare così densa di meschinità, ma anche di disponibilità a lasciarsi riprendere dal Signore.

«3Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram,»

Tamar è la prima donna che compare nella genealogia di Gesù. Ma chi è questa donna? La storia di Tamar è un racconto abbastanza complesso per noi. Racconta come Tamar era stata scelta come figlia da Giuda per il suo primogenito Er. Ma Er, questo figlio dato a Tamar da suo padre, si era messo a peccare contro il Signore. Er a un certo punto muore e Tamar resta senza figli e vedova. Ora noi sappiamo che nell’Antico Testamento per una donna il restare vedova senza figli non era soltanto un disonore, una sventura, ma voleva dire anche rimanere senza un tutore, senza chi le facesse da rappresentante legale, poiché la donna non aveva una piena personalità giuridica. Proprio per questo motivo la legge patriarcale, e poi la legge di Mosè, permetterà alla donna che restava vedova e senza figli di ottenere da un fratello del marito di essere presa come moglie, messa incinta e poter quindi generare un figlio che attraverso il fratello del marito defunto, in qualche modo continuasse la famiglia. Ecco, Tamar vorrebbe questo secondo le consuetudini del tempo, ma il fratello di Er rifiuta, perché non vuole rischiare di dover dividere l’eredità anche con il figlio avuto con la cognata. Allora, Tamar, vedendo che non riesce a ottenere quello che era un suo diritto, si traveste da prostituta, si mette al crocicchio di una strada e aspetta nientemeno che suo suocero, Giuda, il padre del marito di cui era rimasta vedova. Con un sotterfugio lo convince a giacere con lei, rimane incinta e ha un figlio. Quando il suocero, che non ha ancora capito di essere stato con lei, si accorge che è incinta e vuole punirla per aver tradito la memoria del figlio defunto, ecco che Tamar gli rivela che cosa è veramente successo e che in quel modo aveva esercitato il diritto che le era stato negato. Alla fine Giuda la riconoscerà più giusta del figlio, che non aveva voluto fare il suo dovere nei confronti di lei.

È una storia lontanissima dal nostro modo di pensare, che potrebbe persino scandalizzare, ma che ci fa capire che cosa voleva dire per Gesù dire di avere tra i suoi antenati una figura così. Nello stesso tempo, nella Bibbia Tamar diventa la figura positiva di una donna tenacemente aggrappata alla speranza di poter diventare anche lei una delle antenate del Messia, proprio grazie alla generazione dei figli. E questa è una caratteristica importante, perché in una genealogia l’ingresso di una donna era un fatto particolare.

Dopo Tamar, «Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, 4Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, 5Salmon generò Booz da Racab»

Ecco altri due personaggi importantissimi. Siamo ormai al tempo della conquista della terra santa da parte degli ebrei e Raab (o Rahab come viene chiamata) era una prostituta che viveva in una casa sulle mura della città di Gerico. Quando vengono mandati da Giosuè gli esploratori per vedere la situazione del paese che avrebbero dovuto conquistare, questi esploratori vanno a rifugiarsi nella casa di Raab e, quando il re di Gerico viene a sapere che sono arrivati degli stranieri e cerca di catturarli, Raab li nasconde sul tetto della sua casa e li salva dalla morte. Li fa poi fuggire, perché dice: «So che il Signore è insieme al vostro popolo e so quindi che sarete voi a conquistarci. Ecco allora in cambio di questo mio atto di generosità nei vostri confronti, vi chiedo che risparmiate me e la mia famiglia». Quindi, Raab, una prostituta non ebrea, straniera, riconosce la potenza del Dio di Israele e sposerà Salmon generando un figlio, Booz. Chi è questo figlio di una straniera? Booz è colui che proprio a Betlemme secondo il libro di Ruth accoglierà un’altra straniera, Ruth, la moabita, anch’essa rimasta vedova di un israelita. Dopo essere rimasta vedova, con la suocera Noemi era andata a Betlemme, prendendosi cura di lei. Ebbene, Booz vedrà Ruth, se ne innamorerà, la prenderà in moglie e in questo modo diventerà addirittura il nonno del re Davide.

Il re Davide, forse il più importante, o il più amato fra tutti i re di Israele, nella sua ascendenza ha ben due straniere, Raab e Ruth. Anche questo è un fatto sconvolgente, perché la prima figura di donne è una figura, Tamar, che viene giudicata male e che poi invece si rivela più giusta dei suoi accusatori, ecco che Raab è il simbolo della straniera che viene accolta nel popolo di Israele e Ruth è addirittura una straniera che ha compassione e amore per la suocera e per lei non esita ad abbandonare la propria terra natale e a vivere come una straniera a rischio di disprezzo e di essere trattata male in una terra che diventa poi la sua terra. E Gesù, che sappiamo che aveva come titolo “Figlio di Davide”, nella sua ascendenza ha anche queste due donne straniere.

Ma ancora nella genealogia si legge:

«…Obed generò Iesse, 6Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria…»

La moglie di Uria è Betsabea e Uria era un generale di Davide, sposo di questa donna bellissima. Un giorno, mentre questo valoroso generale fedele a Davide era in guerra, Davide ne vide la moglie che prendeva il bagno sulla terrazza di casa. Se ne invaghisce, la fa chiamare a corte e la rende sua amante sino al giorno in cui Betsabea gli manda a dire che aspetta un bambino. Davide perde la testa e, per non svelare a tutti il tradimento compiuto, non sa escogitare niente di meglio che far sì che il comandante delle truppe faccia morire Uria, il suo generale più valoroso, in una sortita fatta apposta perché poi il nemico riesca a riprendere il sopravvento. Dunque, Davide fa uccidere dai nemici un suo generale valoroso per mascherare il misfatto compiuto, prendendosi poi in moglie la vedova del generale. Questo è il grande peccato di Davide, da cui trae origine il salmo 50: “Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; /  nella tua grande bontà cancella il mio peccato…”.

In questo caso nella genealogia di Gesù la figura di Betsabea è anche il simbolo di un’unione adulterina, di un’unione che è costata addirittura la morte del legittimo marito. Quindi, anche questa presenza nella genealogia di Gesù è tutt’altro che di poco significato; al contrario, dice che Gesù viene prendendo su di sé anche tutta la crudeltà, tutta la follia, tutta la passionalità dell’uomo, ma nello stesso tempo anche tutta la grandezza del perdono di Dio: quando Davide si accorge del male commesso e chiede perdono, Dio lo riconcilia a sé e lo mantiene sul trono di Israele.

Dopo Davide, abbiamo la vicenda dei re di Israele:

«7Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, 8Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9Ozia generò Ioatàm…», fino ad arrivare a Manasse, il re più empio che Israele abbia conosciuto: un re idolatra e che tradisce l’alleanza. Dopo di lui viene Giosia, re giusto che restaura il culto del Dio d’Israele, che celebra la Pasqua, quando ormai da anni era stata dimenticata la festa più importante dell’ebraismo. Eppure, Giosia muore giovane, sconfitto in battaglia dal faraone Necao. Questo è uno dei grandi punti di domanda della storia biblica: come mai Manasse, il re empio e idolatra, ha un regno lunghissimo, e invece Giosia, che opera il bene e rinnova l’alleanza con il Signore, viene ucciso prematuramente?

Ecco, che anche questi due re siano nella genealogia di Gesù significa che Gesù assume su di sé anche tutta l’accusa di contraddizione che gli uomini spesso fanno a Dio, quando pensano che Dio sia ingiusto, perché lascia prosperare i malvagi e permette che i buoni periscano presto.

Abbiamo poi tutto il resto della genealogia, dove c’è la deportazione in Babilonia, c’è il ritorno da Babilonia. Si arriva infine a Mattan:

«…Mattan generò Giacobbe, 16Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.»

Ecco una conclusione inattesa per la genealogia di Gesù, perché appunto tutta la genealogia che comincia con Abramo e finisce con Giuseppe, ma non si dice «Giuseppe, dal quale è nato Gesù», ma «Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo». Questa, per chi la sa leggere, è una delle affermazioni più forti della nascita verginale di Cristo, perché l’inserimento in questo modo di Maria nella genealogia, è un unicum, è una rottura nella serie delle generazioni.

Ecco, la prima domenica precedente il Natale, nel rito bizantino diventa esattamente la memoria di questa genealogia di Gesù e questa genealogia diventa la preparazione più immediata.

Qual è lo scopo per cui Gesù assume su di sé tutta questa complessità della storia? Ce lo dice benissimo il primo tropario del vespero del sabato di questa domenica, che dice: «Vergine tutta immacolata, vivente reggia di Dio, tu hai portato in te Colui che i cieli non possono contenere. Nella grotta lo partorirai oltre ogni comprensione, divenuto povero e fatto carne per deificare me e arricchire colui che era divenuto povero per la sua intemperanza di fronte all’amarissimo frutto».

È interessantissima questa antifona, perché ci mostra le dimensioni che entrano nella festa del Natale. Innanzitutto, lo stupore: “Tu, o Maria, immacolata vergine, vivente reggia di Dio, hai portato in te Colui che i cieli non possono contenere”, il Verbo di Dio, appunto!

E tu lo partorirai nella grotta oltre ogni comprensione”, oltre ogni immaginazione da parte nostra. Colui che i cieli non possono comprendere è divenuto povero, povero come un bimbo che nasce in una stalla, fatto carne per rendere me dio: Dio si è fatto carne per rendere me, che sono carne, dio e arricchire colui che era divenuto povero. Dio aveva fatto l’uomo ricco di tutto il paradiso terrestre e l’uomo è diventato povero per non essersi fidato della generosità di Dio, per aver pensato di voler strappare quell’unico frutto che Dio gli aveva detto di attendere a gustare.

“Ecco, io sono Adamo, io sono Davide, Abramo, Isacco, Giacobbe”: questo io è ciascuno di noi, che ritrova nella sua storia un peccato, una pusillanimità, un’intemperanza, una rigidità, un rifiuto della storia in cui è messo. Ecco, io sono tutti questi, ma nello stesso tempo io sono incontrato da Cristo, perché vuole arricchirmi, vuole farmi diventare come Lui.

«Registrato Cristo tra gli schiavi per comando di Cesare, nella tua amorosa compassione, tu vieni a donare la libertà, la vita e il riscatto, o Paziente, ai servi ingrati che venerano la natività salvifica di Colui che è venuto a salvare le nostre anime». Quanto realismo in quest’altra antifona! Cristo viene registrato tra gli schiavi, tra i sudditi dell’impero romano, ma nella sua amorosa compassione – dice subito – viene a donare la libertà, la vita, il riscatto dal peccato, Lui a noi che siamo servi ingrati. Che cosa ci rimane, però? «Servi ingrati che venerano la natività salvifica»: ecco, qual è la nostra possibilità di riscatto. Se ci guardiamo dentro troveremo sempre mille atti di ingratitudine verso tutti i doni che il Signore ci ha fatto, però, ci resta una possibilità: venerare, cioè guardare colmi di stupore e di gratitudine la nascita di Cristo, perché è questo sguardo, è questo stupore che ci rende possibile attingere ancora la salvezza.

Ecco, dunque, questa domenica prima del Natale che ci permette di riconoscere che il cammino dell’avvento è anche il cammino di tutta la storia sacra ed è quel cammino che fa sì che io possa arrivare davanti alla mangiatoia di Betlemme con una consapevolezza più profonda, più vera di quello che sta accadendo. Con una consapevolezza del valore della storia che la Bibbia racconta, ma proprio perché questa storia grande mi permette di rispecchiare la mia storia, piccola, eppure completamente bisognosa di salvezza.

Uno sguardo all'avvenimento in sè

E allora proviamo a guardare un altro aspetto. Finora ci siamo occupati soprattutto dell’Antico Testamento, ma nella preparazione al Natale c’è anche uno sguardo sull’avvenimento in sé. Abbiamo già detto che questo avvenimento, quello che accade a Betlemme è come la ragione per cui siamo invitati ad elevare il nostro spirito verso ciò che sta in alto, a salire spiritualmente verso Betlemme. Ecco, contempliamo il grande mistero che avviene nella grotta. E, allora, che cosa vuol dire elevarsi, che cosa vuol dire crescere in attesa del Natale. Ce lo dice un tropario dell’officiatura: «Precediamo la festa della nascita con la nostra fede e spiritualmente come la stella anticipiamo l’inno di lode dei magi e cantiamo con i pastori: “Da un seno verginale viene la salvezza degli uomini per richiamare i fedeli”». Che cosa significano queste parole? Quello che ci invitano a fare è a fare tesoro dell’insegnamento della Chiesa, del cammino che la Chiesa ci propone per arrivare meno impreparati alla festa di Natale, cioè già desiderosi di vedere tutto quello che accade, perché capiamo che lì c’è la nostra salvezza.

Attenzione! Noi non possiamo anticipare la festa del Natale, non siamo noi che la possiamo far accadere prima, ma noi possiamo arrivare alla festa del Natale più preparati, che significa più disponibili a lasciarci fare dal Signore, a lasciarci mostrare dal Signore come quello che celebriamo a Natale si attua nella nostra vita, come veniamo salvati.

Ecco allora quali sono gli sguardi che la liturgia bizantina ci permette di gettare su quello che avviene a Natale. Abbiamo innanzitutto lo sguardo di coloro che assistono all’incarnazione. Molti sono i tropari che mettono davanti ai nostri occhi tutte le persone che si affrettano di andare verso la grotta e questo andare verso la grotta diviene particolarmente importante anche per noi perché in ciascuna di queste persone possiamo vedere noi stessi. Questi sono i pastori, sono i magi, è la città di Gerusalemme, che pure si sconvolge alla nascita di Gesù; questi sono gli angeli, e perfino le creature inanimate, le montagne, le colline, sono chiamate a guardare e ad ascoltare quello che sta accadendo. Ecco, come dice bene un kontakion, un’altra antifona che si canta il 24 dicembre:

«Oggi la Vergine viene nella grotta per partorire ineffabilmente il Verbo che è prima dei secoli! Danza, o terra tutta, che sei stata resa capace di udire questo: glorifica con gli angeli e i pastori il Dio che è prima dei secoli, che ha voluto mostrarsi come un bimbo appena nato.» Ecco: la Vergine, gli angeli, i pastori e tutta la terra è invitata a danzare.

O ancora: «Stupiva Erode, vedendo la pietà dei magi e, vinto dal furore, si informava sul tempo intercorso dalla nascita del Bambino. Le madri furono private dei figli e l’acerba età infantile fu crudelmente falciata, le mammelle si disseccarono, grande fu la sciagura. Perciò, fedeli, riuniti pietosamente veneriamo la natività di Cristo». Perfino lo sguardo crudele di Erode, uno sguardo che sembra la negazione di tutto quello che Gesù è venuto a portare, alla fine provoca come un unico invito: «Venite, fedeli, veneriamo la natività di Cristo». Come a dire che la natività di Cristo riassume non solo tutta la storia passata dell’umanità, ma essa diventa la chiave alla luce della quale leggere anche tutta la crudeltà, le sciagure, i delitti, che ancora accadranno dopo la nascita di Cristo.

Ecco qui come tutto il turbamento, tutta la fatica dell’uomo nell’accogliere i tempi, i modi della azione di salvezza di Dio viene sintetizzata in un dialogo tra Maria e Giuseppe, così descritto da un’antifona del rito bizantino: «O Vergine, quando Giuseppe saliva verso Betlemme ferito dal dolore, tu gli dicevi: “Perché tu, vedendomi incinta, sei confuso e turbato, ignorando del tutto il tremendo mistero che mi riguarda? Deponi ormai ogni timore e considera il prodigio: Dio nella sua misericordia discende sulla terra nel mio grembo e qui ha preso carne. Una volta nato lo vedrai secondo il suo beneplacito e pieno di gioia lo adorerai come tuo creatore, Lui che gli angeli senza sosta cantano e glorificano con il Padre e il Santo Spirito”».

Bellissima questa espressione «Dio nella sua misericordia discende sulla terra nel mio grembo». La Vergine può essere veramente Colei che canta un prefazio del rito ambrosiano: «Colui che l’universo non può contenere si racchiude nell’intimità del tuo seno, o Vergine!»

Ecco, anche questo è lo stupore per qualcosa di nuovo, ma nello stesso tempo è la glorificazione della Vergine – una donna, un corpo umano – che diventa il tempio del Figlio di Dio. E si dice sempre infatti così: «Oggi nasce dalla Vergine Colui che tiene nella sua mano tutta la creazione e, avvolto in povere fasce come un mortale, Colui che è per sempre intoccabile, viene deposto in una mangiatoia, il Dio che in principio ha fissato i cieli. Si nutre di latte dalle mammelle Colui che nel deserto ha fatto piovere manna per il popolo. Invita i magi lo Sposo della Chiesa, prende i loro doni, il Figlio della Vergine. Noi adoriamo, o Cristo, la tua nascita, facci vedere anche la tua divina manifestazione!» Ecco, il grido finale che ci permette di riassumere tutti i temi che abbiamo incontrato in questa nostra riflessione: abbiamo visto lo stupore, la storia di tutta la salvezza riassunta nella vicenda di Gesù, ma vediamo anche che questo Bambino che nasce è lo Sposo della Chiesa, è il Figlio della Vergine, è il Cristo che adoriamo, è il Verbo che ha fissato i cieli, è Colui che nulla può racchiudere.

Allora, questo è il punto di arrivo, quello che ci auguriamo di poter cogliere nel giorno di Natale. E la nascita di Cristo è veramente l’inaugurazione di un modo completamente nuovo di guardare tutto. L’infinitamente grande diventa la più piccola tra le creature, un bambino, un infante inerme, ma questo abbassamento mostra la via del riscatto da tutte le miserie dell’uomo. Non ti togli dalle tue miserie accumulando cose, accumulando potere, cercando di renderti duro e non bisognoso di chiedere. Al contrario, la via per uscire dalla povertà è quella di lasciarsi incontrare dentro questa povertà e quello che più ci sconvolge è che il Figlio di Dio per riscattarci dalla povertà non sia venuto carico di ricchezze, ma sia venuto condividendo la nostra povertà. È esattamente la logica del rovesciamento che canta il Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote».

Ma tutto questo avviene anche per insegnarci uno sguardo nuovo sulla realtà, appunto lo sguardo che fa terminare la superbia di chi pensa di salvarsi con quello che lui si procura e fa invece trionfare la povertà di spirito, l’umiltà di chi si dispone ad accogliere da un Dio inerme, da un Dio povero, da un Dio indifeso tutto quello di cui ha bisogno.

Conclusione: un riflessione di padre Romano Scalfi

Penso che tutti noi ci rendiamo conto di quanto ancora tanto poco compreso sia questo messaggio del Natale. Quest’anno forse abbiamo l’occasione unica di vivere un Natale che per tanti versi ci richiamerà la nostra debolezza, la nostra povertà. Potremmo cercare di fare in modo che tutto continui ad essere come sempre, di nasconderci la paura, il rischio, la fragilità, oppure possiamo accogliere come provvidenziale anche questo tempo in cui celebrare il Natale, e dunque permettere al Signore di venire davvero a incontrare la nostra fragilità e la nostra povertà e forse in questo modo gli permetteremo una maggiore verità nel nascere in mezzo a noi, perché da sempre Lui ripete questa venuta nell’umiltà della carne e noi così tanto spesso cerchiamo di guardare tutto tranne che questo aspetto.

Ecco, questa è stata solo una piccola introduzione alla ricchezza di tutte le antifone, di tutti i testi della liturgia bizantina, ma spero che possa almeno lasciarci qualche spunto per il cammino che ancora ci aspetta verso il Natale.

In conclusione vi offro una riflessione che padre Romano Scalfi fa proprio su questi versetti della liturgia del Natale, citando l’antifona che dice: «Luce per illuminare le genti, Cristo, sei venuto assumendo l’immagine della mia forma (cioè sei divenuto uomo), hai scelto di arricchire la mia umanità impoverita con la povertà che hai assunto. Io celebro, Signore, la tua amorosa compassione». Padre Scalfi commentava così: «Questo è il tipico amore di Cristo che non parte dall’analisi della nostra condizione, del nostro peccato, ma dalla sua amorosa compassione». Ecco la novità: il Signore non parte dall’analisi della nostra condizione, del nostro peccato, ma dalla sua amorosa compassione, cioè noi siamo guardati più per il suo amore compassionevole, che non per il nostro peccato. Questo non vuol dire che il suo amore poi non guarisca il nostro peccato, ma è come se noi, avendo davanti una persona in difficoltà, ci muovessimo verso di lei, non semplicemente perché vediamo la sua difficoltà e magari la giudichiamo, magari pensiamo come ha fatto ad arrivare fino a lì, pensiamo che se è in difficoltà è perché è stata meno brava di noi, ma partendo dal valore, dalla bellezza, dalla ricchezza di questa persona anche se la vedo in difficoltà. Questo è il modo di agire di Cristo.

E padre Romano continuava: «A Cristo rincresce che noi lo abbandoniamo. Ci guarda con benevolenza non per condannarci, ma per accoglierci e perdonarci, non dobbiamo aspettare di essere bravi per confidare in Lui: Lui ci accoglie sempre. Possiamo veramente pregare così, perché Gesù nei nostri confronti non è sdegnato, ma è rammaricato, perché più noi ci allontaniamo da Lui e più ci allontaniamo dal nostro compimento e meno siamo contenti».

Quanta verità in questa definizione dell’uomo! Allora la compassione che ha appena incontrato nella amorosa compassione del Signore, ecco come la declina: «Misericordiosa compassione è l’espressione più bella per definire Cristo e questa espressione dovrebbe aiutare anche noi a guardare l’altro: deve diventare un aspetto della nostra vita quotidiana. La compassione è anche un modo per capire di più la persona dell’altro». Ecco, se ci è capitato di chiederci quale può essere il segno che ho fatto veramente Natale, che ho veramente celebrato questa festa, questo è un criterio che non inganna: la misericordiosa compassione come l’atteggiamento, lo sguardo che sempre di più mi trovo addosso, quando sono davanti a un fratello, a una sorella. Proprio per questo, perché ci dà uno sguardo più profondo sulla realtà, ecco che padre Romano, nella sua meditazione sul Natale, può continuare, sempre citando un’antifona bizantina: «O mangiatoia, ricevi Colui che con la parola ha liberato noi abitanti della terra dal nostro agire senza ragione». Che cosa vuol dire “agire senza ragione”? Dice: «Noi, quando ci accorgiamo che la realtà ha come cuore Cristo, siamo liberati dall’agire senza ragione. Cristo ci fa ragionare meglio, la sua grazia perfeziona la natura. Se alla nostra vita manca uno scopo adeguato, l’uomo sragiona. Se lo scopo è Cristo, la mente viene illuminata. Bisogna lasciarci illuminare dalla luce di Cristo. Perché la vita diventi un’esperienza con un contenuto, occorre un giudizio che parta dallo scopo ultimo della vita, se no perdiamo tempo. Cristo è presente in ogni cosa e in ogni situazione, tranne che nella nostra fantasia. Quando fantastichiamo, ci perdiamo dietro a progetti irraggiungibili, Cristo non è presente». Come è bella questa affermazione di Cristo che ci libera da un agire senza ragione! Agire senza ragione è anche, dice padre Romano, quel pensare magari cose complicatissime, o anche bellissime e altissime, ma nell’incapacità di riconoscere la presenza ora, qui di Cristo nella nostra vita. Non si scappa: la celebrazione del Natale fa diventare cristocentrica tutta la nostra vita, cioè ci aiuta a capire che quando perdiamo come punto di vista, come sguardo quello di Cristo non riusciamo più a guardare la realtà in cui siamo.

Un altro aspetto che val la pena di menzionare è che la venuta di Cristo è una venuta che rimuove le ombre. Dice l’evangelista Giovanni nel suo prologo parlando della venuta di Cristo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo».

Scrive padre Romano: «Lo scopo della salvezza non è solo togliere il peccato, ma portare l’uomo alla deificazione, alla divinizzazione della vita, che non è proporzionale ai meriti dell’uomo, ma all’opera di Cristo». Questa aspetto è molto importante. Quando padre Romano dice che «la divinizzazione della nostra vita non è proporzionale ai meriti dell’uomo, ma all’opera di Cristo», dice esattamente questo: la nostra divinizzazione non è semplicemente la ricompensa di quel tanto di bene che facciamo a cui corrisponde un tanto di divinizzazione, ma il dono che Cristo ci fa, corrisponde alla Sua opera, al Suo sguardo e, dunque, possiamo capire che Cristo non ha le nostre misure nel dare i suoi doni. Quello che ci chiede è di non guardare a quello che noi pensiamo di aver fatto, ma alla disponibilità che siamo disposti a offrirGli. Dice: «È evidente questa qualità del Natale. Quello che Cristo ha compiuto una volta, si ripete sempre. È offerto a ciascuno di noi, dobbiamo lasciarci prendere e deificare. Il nostro maggiore contributo alla salvezza universale è proprio questo». Questo significa che la prima opera, la prima testimonianza, il primo contributo che noi possiamo offrire alla salvezza del mondo è esattamente quello di lasciarci raggiungere da Cristo e di diventare malleabili alla sua azione. Cosa significa questo per non farlo rimanere semplicemente una frase? Diventare malleabile all’azione di Cristo significa innanzitutto tenere vivo il desiderio che Lui si affermi nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare; significa abbandonare l’atteggiamento un po’ scettico di chi legge il Vangelo, legge le preghiere e dice: “Che belle cose, ma chissà quando saranno possibili!” Significa guardare la realtà, il tempo che sto vivendo come un tempo e una realtà che già sono abitati da Cristo. Potremmo dire che il tempo dell’attesa, il tempo in cui riscoprire la Chiesa di Cristo non trova il suo punto di arrivo nel giorno del Natale, perché da lì in poi non devo più attenderlo, ma piuttosto ha lo scopo di insegnarmi un atteggiamento, la domanda, l’attesa, il desiderio che è un atteggiamento da mantenere vivo ogni giorno. Senza questo atteggiamento, io non vengo raggiunto da Cristo, non perché Cristo non mi vuole raggiungere, ma perché io non sono aperto ad accogliere quello che Lui vuole offrirmi.

 

Approfitto dell’occasione per fare a tutti gli auguri di una buona conclusione del tempo di Avvento e di una santa presenza nel giorno del Natale. Sarà forse un Natale un po’ diverso da tanti altri, ma anche questo è un Natale che ci viene donato e il Signore non è diverso, né di meno in questo Natale.

 

(testo tratto dagli appunti della registrazione e non rivisto dall’Autore)

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