“Tu benedici la corona dell’anno”: il tempo come dono

Riflessioni di Mons.Francesco Braschi (Radio Maria, 1 Settembre 2020)
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Dedichiamo queste rilfessioni a aciò che la tradizione bizantina, la tradizione delle Chiese dell’Est, celebra e vive durante il mese di settembre: il primo settembre, infatti, è il capodanno nell’anno ecclesiastico bizantino. Era il capodanno nell’anno civile dell’Impero d’Oriente, dai tempi di Costantino, quello che si chiamava l’indizione. Si faceva appunto cominciare l’anno il primo di settembre e questo inizio al primo di settembre è rimasto nella tradizione bizantina proprio come inizio del nuovo anno.

E non è semplicemente una ricorrenza cronologica, una ricorrenza di calendario ma assume –e questo è un aspetto importante che forse il primo di gennaio nella Chiesa d’Occidente non ha con questa profondità- il significato di un giorno nel quale ci si domanda cosa sia il tempo, cosa sia lo scorrere del tempo, cosa sia l’anno nuovo che inizia, cosa sia il ritornare del ciclo dell’anno. E tutto questo, naturalmente, trovando delle risposte che sono pane sostanzioso, che sono possibilità di cammino nelle circostanze che noi viviamo.

Resurrezione

Ecco, ricordo, che c’è un’ulteriore ricorrenza che accompagna il primo di settembre, risalente ad alcuni decenni fa: fu nominato infatti dal patriarca di Costantinopoli “giorno per la salvaguardia del Creato”, una commemorazione alla quale recentemente si è unita anche la Chiesa Cattolica per impulso di Papa Francesco.  Ma qui vogliamo guardare il tema più tradizionale, il tema più antico, che il primo di settembre porta con sé.

Allora partiamo per questo nostro breve viaggio proprio guidati e sostenuti dai testi della Liturgia Bizantina, sia i testi delle ore canoniche, quindi Vesperi, Lodi, Mattutino, e  anche i testi della Divina Liturgia, cioè quelli che chiameremmo i testi della Messa.

Mi sembra importante lasciarci guidare da questi testi perché condensano in sé la sapienza dei secoli, condensano in sé anche la storia di generazioni e generazioni di cristiani che li hanno composti, li hanno pregati, li hanno trasmessi, nelle circostanze storiche più diverse e di questo noi vediamo l’eco nei testi che leggeremo tra poco.

E questo mi fa venire subito una prima domanda, come una prima verifica che tutti ci diamo: ecco, noi possiamo davvero dire di riconoscere come la chiave per leggere il tempo in cui siamo immersi, il tempo nel quale viviamo, lavoriamo, viviamo la nostra vita di famiglia, come un tempo che viene illuminato dalla Liturgia della Chiesa, dalla Parola di Dio, ma soprattutto dai testi che la Chiesa ci offre ogni giorno nella Messa e nella Liturgia delle Ore?

Non è un’osservazione banale o pietistica o che vuole in qualche modo togliere dalla realtà concreta, perché tutti noi stiamo sperimentando quest’oggi e in questi giorni, come da tanto tempo non sperimentavamo, una grande paura del tempo che passa, una paura del tempo che arriva, di quello che ci aspetta; forse nessuna ripresa dopo le vacanze negli ultimi decenni è stata segnata da una così grande paura, da una così grande ansia. Ecco: la Liturgia, la Chiesa, i testi della preghiera non sono fatti per sfuggire a queste domande ma piuttosto per farci capire come esista un modo di stare davanti alle sfide quotidiane e anche a quelle straordinarie – come quelle del tempo che viviamo –  con uno sguardo nuovo, con una attenzione nuova.

 

Tre dimensioni fondamentali

Allora cominciamo con il primo testo che è uno degli stichirà (delle antifone, diremmo così) del Vespero; quindi si canta normalmente la sera del 31 di agosto perché secondo il modo di contare il tempo della Chiesa Bizantina, quello è già l’inizio del giorno successivo.

Dice così: “Appresa la preghiera dal divino insegnamento a noi impartito da Cristo stesso –cioè l’insegnamento del Padre Nostro, avendo imparato a pregare quando Cristo ci ha insegnato il Padre Nostro- noi crediamo ogni giorno al Creatore. Padre Nostro che dimori nei cieli, donaci il pane quotidiano, senza far conto delle nostre colpe”. E’ bellissimo questo Tropario perché fa iniziare l’anno con una primissima e fondamentale chiave di lettura: iniziamo l’anno in un dialogo con il Padre, anzi, iniziamo l’anno con un grido al Padre, che riconosciamo come Colui che scandisce le nostre giornate con il dono del pane quotidiano. E gli chiediamo che, conformemente a quanto ci ha insegnato Cristo, questo pane quotidiano ci sia donato senza far conto delle nostre colpe. E’interessante questa annotazione, perché nel Padre Nostro noi diciamo “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, cioè noi non chiediamo a Dio che ci renda impeccabili, non chiediamo a Dio che perdoni i nostri peccati, senza chiedere nulla in cambio, o meglio senza che da parte nostra ci sia una collaborazione a questo. E la nostra collaborazione però non è il nostro sforzo di eliminare i nostri peccati, ma la nostra collaborazione è quella di rimettere i debiti a quelli che ne hanno con noi.

E’ molto importante questa affermazione perché ci fa capire che si entra nell’anno nuovo ricordandoci tre dimensioni fondamentali. Prima dimensione: noi abbiamo bisogno di un Padre, che ci continui a generare, perché possiamo stare dentro il tempo; la seconda dimensione è che a questo Padre noi chiediamo, perché senza il pane che ci dona lui noi non sappiamo camminare; terza dimensione, il rapporto con i nostri fratelli non può essere segnato solo dal peccato – quello che ci viene fatto, quello che normalmente ci pesa di più, ma nemmeno quello che facciamo noi – ma è segnato dal fatto incredibile che il Padre, proprio perché ci perdona i nostri peccati, ci rende capaci di perdonarli a quelli che hanno peccato contro di noi.

Questa è la prima antifona dell’anno liturgico nel rito bizantino e quindi dice, come vediamo già, una prospettiva che ci aiuta a vincere la paura, perché fin da subito ribadisce che noi stiamo nel tempo grazie a una paternità. Ma subito dopo ecco che arriva l’irruzione della storia con tutte le sue inquietudini ,con tutte le sue paure, con tutte le sue domande. E dice: “Come un tempo furono giustamente dispersi nel deserto i cadaveri degli ebrei che si erano ribellati a Te, o sovrano dell’universo –cioè è la ribellione che avviene nel deserto, dopo la quale c’è una peste, c’è una malattia che li colpisce- così anche ora disperdi, o Cristo, le ossa degli gli agareni empi e infedeli”. Chi sono gli agareni, gli infedeli? Sono i figli di Agar. I figli di Agar, nella Bibbia, sono Ismaele e i suoi discendenti e nella storia questa è la discendenza parallela di Abramo; da un lato abbiamo appunto il figlio Isacco, da cui discende il popolo di Israele, dall’altra abbiamo Ismaele, il figlio della schiava di Abramo, da cui discende il popolo degli arabi; naturalmente quando la Storia Sacra ci racconta questo, nel 1800 avanti Cristo, non esisteva ancora l’islam, assolutamente, ma si vuole sottolineare così un dato storico: quello di una parentela che diventa però rivalità tra i popoli di stirpe ebraica e i popoli delle stirpi arabe, che sappiamo esistevano ben prima dell’arrivo di Maometto.

Il ricordo degli agareni, cioè dei figli di Agar, dentro il Vespero, ricorda un fatto storico molto importante: il fatto che la città di Costaninopoli, la città che prima dell’evangelizzazione della Rus, era la capitale più grande del mondo bizantino, viveva dal VII-VIII secolo dopo Cristo una situazione che portava alla riduzione sempre maggiore e progressiva dell’impero bizantino, a causa dell’espansione del mondo islamico, fino ad arrivare ad avere la città di Costantinopoli sempre più da vicino circondata e assediata dal nemico. Ed ecco che questa antifona che abbiamo letto ci fa ricordare come il modo che la città di Costantinopoli aveva di celebrare l’inizio dell’anno era il modo di celebrare parlando di questa fiducia nel Padre, di questa figliolanza che si concepiva nei confronti del Padre, dentro una situazione storicamente drammatica, una situazione di pericolo, una situazione in cui il pericolo più grande era quello che con l’invasione venisse emanato l’obbligo di abbandonare la fede cristiana.

"Oggi si è adempiuta la parola che avete udita"

Ma anche in una situazione storicamente faticosa, storicamente fragile dal punto di vista politico e indipendente, ecco che viene una parola nuova. Che cosa segna potentemente l’inizio dell’anno? E’ un brano del Vangelo che sarà poi letto nella messa del primo di settembre, un brano che conosciamo molto bene. E’ un brano del Vangelo di Luca, il capitolo IV dal versetto 16 al versetto 22.

Lo leggiamo perché è un testo assolutamente fondamentale: “Gesù si recò a Nazareth dove era stato allevato ed entrò, secondo il suo solito di sabato, nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Apertolo trovò il passo dove era scritto: “lo Spirito del Signore è sopra di me. Per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare  ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore”. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”.

Capiamo subito la forza di questo brano del Vangelo letto il primo giorno dell’anno. Questo è il brano con cui, nel Vangelo di Luca, Gesù inaugura la sua predicazione, la sua evangelizzazione, il suo annuncio; e lo inaugura parlando della proclamazione di un anno di grazia del Signore, di un anno gradito al Signore, di un anno pieno dei doni del Signore. Che anno è questo? Nella profezia del profeta Isaia che qui Gesù sta citando, era l’anno del giubileo, l’anno giubilare: ogni 50 anni, 49 anni, ogni 7 settimane di anni, che cosa prescriveva la Torah, la legge di Israele? Che ci fosse un anno nel quale, potremmo dire così, si ricominciava da capo, cioè si condonavano tutti i debiti, ogni israelita rientrava in possesso della terra che era stata assegnata alla sua famiglia dopo l’esodo. Chi l’avesse venduta o l’avesse data ad altri la riceveva ancora indietro, chi era diventato schiavo per debiti, riceveva la liberazione; diciamo che, idealmente, il giubileo voleva rimettere ciascuno nella posizione di dire il suo sì alla vocazione alla quale il Signore lo aveva chiamato, come appunto l’inizio del popolo di Israele nella terra promessa.

Una idea formidabile, un’idea profetica grandissima, che l’Israele storico non sappiamo se ha mai vissuto, proprio perché questa volontà di Dio chiedeva, per potersi manifestare, una adesione , un cuore grande da parte degli uomini, disposti a riconsegnare nelle mani di Dio tutta la loro vita, tutta la loro storia, tutti i loro beni, la loro terra. Ma sicuramente il fatto che Gesù inizi il suo ministero richiamando quest’anno di grazia del Signore, ecco che dice proprio questo: Gesù viene perché ogni uomo, quale che sia la sua situazione, venga rimesso nella condizione di poter dire il suo sì al Padre che l’ha creato, di poter riconoscere di essere figlio. E che questo venga riletto dalla Chiesa d’Oriente a ogni inizio d’anno ci vuole far capire che quello che dice Gesù dopo aver letto il rotolo di Isaia: “oggi si è adempiuta la scrittura che voi avete udita”, è qualcosa che accade anche adesso, che accade ogni anno. L’inizio dell’anno non è marcato dal rimpianto per il tempo passato, non è marcato dalla paura di un tempo che sfugge, non è adombrato dal timore che ogni anno che passa ci avviciniamo alla nostra morte; al contrario, l’anno si apre nel segno di questa profonda e totale fiducia in quel Dio che ci ha creati e che si rende presente, anno dopo anno, assicurando una presenza che salva, una presenza che guarisce, una presenza che rianima. “Mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi”. Ecco quello che viene a fare Gesù.

Metterci in una prospettiva nuova

Ricordare questo all’inizio dell’anno significa esattamente rimetterci dentro il tempo che scorre con una prospettiva nuova. E infatti questo viene richiamato dai testi della liturgia che proseguono sempre su questa falsariga e quello che viene continuamente detto, quello che viene continuamente ripetuto, è il  versetto 12 del salmo 64, che dice così: “Tu o Signore benedici la corona dell’anno” oppure secondo la traduzione italiana della Bibbia, “coroni l’anno con i tuoi benefici” e un Tropario dice proprio questo, rivolgendosi a Cristo: “Tu, congiunto al Santo Spirito, unito allo Spirito Santo, tu che sei il Verbo senza principio e sei il figlio del Padre, con Lui creatore e artefice di tutte le cose visibili e invisibili, benedici la  corona dell’anno, custodendo nella pace i popoli della retta fede, per l’intercessione della Madre di Dio e di tutti i santi”.

Cosa dice in più questo Tropario? Ci ricorda proprio che l’inizio dell’anno è l’occasione propizia per riflettere su che cosa sia l’opera della creazione. L’opera della creazione non è mai nella Bibbia semplicemente la cosa che accade all’inizio, ma la creazione è qualcosa che accade continuamente. La Trinità crea e mantiene nell’essere tutto il mondo. Questo non è soltanto l’annuncio o la promessa di una possibilità di qualcuno che ripara i  nostri errori ma è ben altro, perché è come l’invito a vivere ogni istante, ogni secondo della nostra vita, come un kairos, cioè come un’occasione preziosa di cogliere un dono che c’è dentro il tempo e che tanto ci fa bene, perché ci aiuta a vincere quell’altra concezione, frutto diretto del peccato originale, che vede il tempo come una sorta di materia che  cerchiamo di padroneggiare in base alle nostre forze, in base al nostro progetto, in base alla volontà di affermare una nostra concezione della vita nostra, degli altri, della realtà in cui viviamo. Al contrario, questo invito a guardare tutta la Trinità continuamente in azione per mantenere il mondo nell’essere, quindi per mantenere anche me nell’essere, mi fa vedere ogni momento, ogni mio respiro come un luogo di gratitudine e di riconoscimento. Di riconoscimento proprio del mio essere continuamente fatto.

Questo è il principio, come dice il Tropario che abbiamo appena letto, di ogni pace, questo è il principio che permette di essere custoditi nella pace, anche  quando le circostanze del tempo sono piene di incertezza e di fatica.

Custoditi nella pace

E questo viene sottolineato dalla seconda lettura che i Vesperi sempre del 31 di agosto, l’inizio del primo di settembre, comportano. Sono tre letture. La prima è la lettura di Isaia che Gesù stesso cita nel Vangelo che abbiamo ascoltato e per il momento la lasciamo da parte.

La seconda lettura che viene letta durante i Vesperi è un passo del libro del Levitico. Il Levitico è uno dei primi libri della Bibbia, nel Pentateuco ed è il libro che raccoglie soprattutto le leggi e le prescrizioni per il culto di Dio. Ma dentro questo contenuto ci sono anche delle parti narrative, dove si racconta proprio di come Dio nel deserto costruisce la sua alleanza con il popolo di Israele.

E sentite che cosa dice il Signore ai figli di Israele in questo brano (è il capitolo 26 del libro del Levitico): “se camminerete secondo i miei precetti e camminerete secondo le mie leggi e osserverete i miei comandamenti e li metterete in pratica, io darò la pioggia a suo tempo, la terra darà i suoi prodotti, gli alberi dei campi daranno i loro frutti. Il tempo della trebbiatura si congiungerà per voi a quello della vendemmia e quello della vendemmia a quello della semina. Mangerete a sazietà il vostro pane, abiterete con sicurezza nella vostra terra e non ci sarà chi vi spaventi. Distruggerò le belve dalla vostra terra, la guerra non attraverserà la vostra terra, i vostri nemici cadranno davanti a voi. Io volgerò il mio sguardo su di voi e vi benedirò, vi farò crescere, vi moltiplicherò, stabilirò con voi il mio patto; camminerò tra voi e sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Ma se non mi ascolterete, non metterete in pratica questi  miei precetti, vi ribellerete ad essi e la vostra anima prenderà in orrore i  miei giudizi, così da non mettere in pratica tutti i miei comandamenti, io a mia volta farò con voi così. Seminerete invano i vostri semi e i vostri avversari mangeranno le vostre fatiche. Spezzerò l’alterigia della vostra superbia, renderò per voi il cielo come ferro e la terra come bronzo”. Questa profezia, questo brano del libro del Levitico mi sembra di una qualità sconcertante perché, se è vero che qui tutto è collegato a un ambiente agricolo, in particolare, questa descrizione della descrizione dell’anno in cui la trebbiatura si congiunge col tempo della vendemmia, la vendemmia con la semina, cioè tutto l’anno scandito da una operosità, da un lavoro dei campi che però è pieno di frutti, quindi è pieno di speranze, è pieno di fiducia: ecco, questa rappresentazione che ci può sembrare così lontana, dice però una cosa importantissima, dice che è proprio Dio che conosce i tempi e i modi del vivere nella terra. Perché la terra, secondo la Bibbia, è il dono che Dio ha fatto agli uomini per poter vivere dentro la terra e il suo rapporto con loro. Nel momento in cui non riconosciamo questa realtà, non riconosciamo più questo dono, non riconosciamo più il significato della terra, ecco che allora viene stravolto tutto. Ne vengono stravolti i ritmi, ne viene stravolta la consistenza, viene stravolta la normalità del susseguirsi delle stagioni.

Spero che siano tanti tra di voi quelli che si ricordano la riflessione che papa Francesco il 27 di marzo di quest’anno fece davanti a una piazza san Pietro vuota, nel giorno più pesante della pandemia, quando ricordò come “avevamo sperato di essere sani in un mondo malato”, ma un mondo malato perché l’avevamo ammalato noi, perché l’abbiamo misconosciuto, gli abbiamo tolto la sua verità. Non solo ci siamo fatti padroni del tempo, ma ci siamo fatti padroni del mondo, senza più riconoscere questa origine, questa dipendenza che sta alla base.

Vedere il tempo nella prospettiva dell'eternità

Ed ecco allora che il primo giorno dell’anno nel rito bizantino aiuta anche a ritrovare questa dimensione.

Naturalmente questo non significa puntare unicamente su un benessere materiale, quasi appunto che la fede o l’obbedienza al Signore diventino una specie di assicurazione sulla vita che ci protegge da tutti gli infortuni e gli imprevisti. Chiaramente stare nella realtà con la coscienza di essere posti nella realtà dalla chiamata di Dio, dalla vocazione che lui ci manda, e quindi anche dal destino che Egli ci consegna, ci aiuta a vedere il tempo che passa nella prospettiva del nostro cammino verso l’eternità. Quindi l’anno che inizia ci ricorda anche una verità che per noi è diventata solo scomoda e spaventosa: e cioè la verità che la nostra vita inizia su questa terra, e tuttavia è destinata a non concludersi ma a trapassare in una vita eterna.

E questo viene ricordato dalla Liturgia bizantina proprio in questo giorno, con la terza lettura dei Vesperi che è la lettura del libro della Sapienza che probabilmente conosciamo anche noi, perché è una lettura che viene molto spesso utilizzata durante le esequie, durante i funerali. E dice così: “Il giusto, quando anche giunga a morire, sarà nel riposo; vecchiaia venerabile non è quella di un lungo tempo di vita, né si  misura col numero degli anni; ma la prudenza equivale per gli uomini ai capelli bianchi e l’età avanzata è una vita senza macchia. Divenuto gradito a Dio è stato da lui amato e poiché viveva tra peccatori è stato trasferito, è stato rapito perché la malizia non alterasse la sua intelligenza e l’inganno non sviasse la sua anima, poiché il cattivo fascino del male oscura il bene e l’agitarsi dei desideri incontrollati guasta la mente innocente. Reso in breve tempo perfetto ha portato a termine un lungo corso; la sua anima era infatti gradita al Signore per questo lo ha tolto di mezzo dalla malvagità. I popoli vedono ma non comprendono, non pongono mente a questo fatto: che grazia e misericordia sono come i suoi santi, che Dio visita i suoi eletti”.

Questo brano del libro della Sapienza, l’ultimo libro in ordine cronologico dell’Antico Testamento, che già ha profondamente in sé l’idea della Resurrezione, ci trova purtroppo molto spesso esattamente nella condizione di quelli che “vedono e non comprendono”, perché appunto, noi stessi conosciamo per esperienza diretta quanto sia difficile lasciarci liberare dalla paura della morte. E allora per questo, questo brano viene riproposto proprio per ricordarci una verità da tanto tempo dimenticata e disattesa, che la morte non è la fine di tutto, non è la “nera signora” che fa paura, ma, secondo la Bibbia, la morte, – e questo lo afferma molto chiaramente san Paolo, seguito poi dai Padri della Chiesa – è anche la fine del tempo nel quale il male, il peccato, la tentazione, possono scatenarsi contro di noi. Non l’abbiamo forse mai considerato questo aspetto, ma è un aspetto essenziale, perché ci rendiamo conto che vedere la vita di questo mondo come se esistesse solo lei, come se non ci fosse una prospettiva oltre, da un lato non ci aiuta a vivere meglio la vita di questo mondo – perché ci fa vivere attanagliati dalla paura che finisca troppo presto, che comunque è sempre troppo presto quando finisce – e dall’altra parte non ci permette di riconoscere che in questo tempo che ci è dato nella vita terrena, veramente siamo continuamente in balia del rischio di cedere al male, di cedere al peccato, di rinnegare il Signore e, dunque, la vita terrena (questo ben lo sapevano i santi) ha un aspetto continuo di lotta che fa desiderare il riposo, che fa desiderare la fine della lotta per poter finalmente riconoscere e gustare tutto il bene, tutto il bello, tutto il buono per cui siamo creati.

Sembra quasi assurdo oggi presentare così la dialettica, la contrapposizione, il rapporto tra la vita e la morte, eppure questo ci consegnano la tradizione della Chiesa, la tradizione liturgica e la tradizione teologica e, forse, proprio l’inizio di un tempo nuovo, di un anno sociale, di un anno civile, con la ripresa del lavoro dopo le ferie, come quello che stiamo vivendo, sarà vivibile, sopportabile, anzi persino potrà affrontarlo con animo, con coraggio, con la curiosità di vedere che cosa si può fare, non chi è attanagliato dalla paura ma chi è certo che quello che qui si opera, quello che qui si testimonia, il bene che qui si riesce a portare, serve come possibilità di riconoscimento della smisurata quantità di bene verso la quale siamo in cammino. Se una volta si diceva: “se vuoi fare il bene a una persona non darle un pesce ma insegnale a pescare” potremmo parafrasare questo detto della sapienza popolare in questo modo: “se vuoi aiutare un amico, un fratello a vivere bene, aiutalo a ricordarsi che deve morire” ma, appunto, con quella concezione e visione della morte che permetteva a san Francesco di chiamarla “sorella nostra morte corporale” e che diventa semplicemente un passaggio.

Ma proviamo a fare ancora un passo avanti e proprio perché c’è questo slancio verso il futuro, questo slancio verso l’eternità, ecco che la preghiera della Chiesa ci fa tornare sulla richiesta di ciò che ci è necessario ora. Sentite come è bello questo Tropario che viene pregato sempre durante i Vesperi.

Dice: “Tu, o re, che sei e rimani per i secoli senza fine, ricevi la preghiera dei peccatori che chiedono salvezza e concedi, o amico degli uomini, fertilità alla tua terra, donando climi temperati. Combatti insieme al nostro fedelissimo re contro i barbari e gli atei, come facesti un tempo con Davide, poiché sono venuti nelle tue dimore e hanno contaminato il luogo santissimo, o Salvatore, ma tu dona vittoria, o Cristo Dio, per l’intercessione della Madre di Dio, perché tu sei vittoria e vanto di chi ha una retta fede”.

Ecco questo Tropario ci porta nel tempo successivo alla conquista di Costantinopoli, perché dice appunto “hanno contaminato il luogo santissimo”, eppure non si smette di chiedere, di domandare la salvezza, fertilità alla terra, climi temperati, anche quando questi terreni, anche quando il clima è abitato non solo dai fedeli ma anche dai nemici.  E’ un inizio, ma è l’inizio di uno sguardo nuovo perché mentre si chiede la vittoria, nello stesso tempo si chiede innanzitutto la salvezza dei peccatori e questo apre a uno sguardo capace di abbracciare perfino i propri nemici. E ancora dice: “Tu che dai stagioni fruttifere e piogge dal cielo agli abitanti della terra, accogliendo anche ora le preghiere dei tuoi servi, libera da ogni angustia la tua città, perché le tue compassioni sono per tutte le tue opere, benedicendo dunque l’entrare e l’uscire, dirigi per noi le opere delle nostre mani e donaci, o Dio, la remissione delle colpe. Tu infatti nella tua potenza hai tratto dal nulla all’essere tutte le cose”.

Ecco il punto di arrivo del Vespero: è la prima antifona del Mattutino, appunto, che segue subito la conclusione del Vespero, e ricorda proprio che non possiamo rivolgere la nostra preghiera a Dio chiedendogli un tempo buono, un tempo abitato da un clima mite, dei frutti della terra, da quello che serve per vivere, se non riconosciamo due fatti: il primo, che abbiamo bisogno della remissione delle colpe e, il secondo, che Dio ha tratto dal nulla all’essere tutte le cose, tutte. Non soltanto quelle che ci vanno bene, non soltanto quelli con cui siamo in pace. Ecco che allora diremmo così: il modo giusto di fruire del tempo e di fruire dello spazio, di stare dentro il creato e di vivere nello scorrere del tempo, è quello che ci permette di acquisire lo sguardo stesso di Dio, lo sguardo di Dio che è uno sguardo di totalità, che non dimentica nessuno di coloro che ha creato e lo sguardo di Dio che è sempre uno sguardo di compassione, uno sguardo di misericordia. E proprio questo, questa domanda di uno sguardo che è come quello di Cristo, come quello della Sua compassione, permette di continuare questa preghiera; ma fermiamoci un attimo e cominciamo a farci una domanda che diventa decisiva per l’ultima parte del nostro incontro: “Come sono abituato a stare nel tempo? Che cosa domando a riguardo del tempo che vivo? Che rapporto ho con il Signore in questo aspetto così decisivo per la mia vita?

Il cristiano e la società civile in cui vive

Passiamo ora ai testi della Divina Liturgia, della Messa del primo di settembre. Viene letto quel passo del capitolo IV di Luca in cui appunto Gesù inizia il suo  ministero ma prima di quel brano di Vangelo, in quella stessa Messa viene letta un’altra pagina della scrittura (nel rito bizantino, non c’è una prima e una seconda lettura e poi il vangelo ma c’è un’epistola, c’è sempre un brano tratto dalle lettere di Paolo, che permette di cogliere e approfondire il senso della giornata, il senso della festa) e il primo giorno dell’anno, il brano che viene letto è un brano della I lettera a Timoteo, il capitolo 2, i versetti dall’1 al 7. Lo leggiamo questo brano, un brano molto noto, ma che collocato in questa apertura d’anno acquista un significato ancora più interessante. Al suo discepolo Timoteo scrive Paolo: “Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza Egli l’ha data nei tempi stabiliti e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo, dico la verità, non mentisco, maestro dei pagani nella fede e nella verità”.

Questo densissimo brano della lettera a Timoteo ci porta direttamente in un’epoca, quando viene composto, in cui iniziava a essere conosciuta da parte dei cristiani anche la persecuzione. Non siamo ancora alle grandi persecuzioni del II e III secolo, ma siamo molto vicini al momento del martirio di Pietro e di Paolo. La cosa interessante è proprio questa, che anche in un contesto di difficoltà e di ostilità, la domanda che Paolo rivolge a Timoteo, la raccomandazione, l’esortazione, dice che prima di tutto si facciano “domande, suppliche, preghiere, ringraziamenti per tutti gli uomini”, quindi mai una preghiera che volontariamente escluda qualcuno, non esiste una preghiera che si fa contro, o tagliando fuori qualcuno, e specifica “per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità”.

Qui potremmo dire che abbiamo riassunto il tre righe quello che diventa il modo ideale di concepire il rapporto tra il cristiano e la società civile in cui vive, perché innanzitutto abbiamo questo dato: abbiamo la raccomandazione da parte di Paolo che si facciano “domande, suppliche, preghiere, ringraziamenti, per i re  e per tutti quelli che stanno al potere”. Cosa vuol dire pregare per i re, per quelli che stanno al potere? I Padri della Chiesa commenteranno questa preghiera sottolineando una cosa: che chi ha un potere da esercitare, è sottoposto a una quantità di tentazioni molto superiore a chi non  ha un potere da esercitare. La tentazione del potere, del proprio tornaconto, il gusto del “potere per il potere” ci dice che proprio perché questi sono in una situazione di maggiore difficoltà, di maggiore pericolo, di maggiore tentazione, ci viene chiesto di pregare sempre per loro. Ma nello stesso tempo, dice, si “facciano anche ringraziamenti per tutti gli uomini”, quindi si chiede anche di essere capaci di riconoscere il bene che ci viene dal vivere in una situazione dove c’è comunque un governo, un ordine, perché infatti “possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità”. E’ interessante, perché quando si parla di questa vita calma e tranquilla, si intende una vita che sia posta nella condizione di dedicare il tempo giusto alla riflessione e alla preghiera; i termini che vengono usati, in greco sono due termini che richiamano proprio questo aspetto: quindi vita calma e tranquilla, non per dormire sempre, ma una vita calma e tranquilla perché l’anima, perché la mente possano dedicarsi a quei pensieri e a quella contemplazione, quella preghiera, quel desiderio, quel riconoscimento delle domande fondamentali che appunto rendono gli uomini tali. E questo aspetto mi sembra che sia ancora particolarmente interessante da richiamare all’inizio dell’anno nuovo, perché quante volte nelle nostre preghiere o nella rappresentazione che ci facciamo della nostra vita ideale, abbiamo messo dentro anche il tempo necessario e la tranquillità necessaria per poter guardare oltre, per poter alzare gli occhi del corpo ma anche della mente e del cuore, per potere riguardare, ricontemplare il nostro fine, il nostro destino, cioè per dare voce a quelle che sono le domande fondamentali che il senso religioso dell’uomo non può sopprimere? Ecco, è interessante perché la vita calma e tranquilla è collegata a due condizioni: la pietà e la dignità. Come dire che solo l’uomo che è capace di pensare alla sua origine, al suo fine, è capace di guardarsi come una creatura e di riporsi le domande fondamentali: solo quest’uomo , animato dalla pietà, cioè dal riconoscimento del suo essere da Dio, può vivere con piena dignità. Non c’è dignità piena dell’uomo senza la libertà religiosa, non c’è dignità piena dell’uomo senza il riconoscimento del suo essere creatura; se la mia dignità non la riconosco come qualcosa che  mi viene donato, non da un altro uomo,ma appunto da qualcuno che è oltre la sfera puramente umana, allora la mia dignità resterà soltanto qualcosa che è legato al riconoscimento di tutti gli altri. La dignità della persona diventa una realtà politica che le maggioranze mutevoli, che le opinioni mutevoli degli uomini possono cambiare. Mentre l’unico fondamento della dignità della persona che non viene mai meno e non cambia mai, è esattamente il fondamento divino, il fondamento  metafisico. Solo se riconosciamo che nell’uomo c’è qualcosa, un di più che gli è dato direttamente da Dio, allora noi riconosciamo che c’è un rispetto da dovere e quindi, appunto, un riconoscimento di dignità; altrimenti i diritti e il riconoscimento della dignità di ogni uomo che nasce sarà subordinato alle condizioni di quel momento, sarà subordinato alle circostanze della sua nascita, alla lingua che parla, al censo della famiglia che lo ha generato, alla considerazione o meno della sua uguaglianza rispetto ad altri. Sono tutti fenomeni che stiamo continuamente sperimentando e continuamente vedendo perché una delle questioni più preoccupanti di questi anni è esattamente l’offuscarsi della concezione della pari dignità di tutti gli esseri umani.

E questa preghiera che viene fatta da Paolo poi continua svelandoci qual è il piano di Dio, qual è la volontà di Dio. Quante volte questo termine – la volontà di Dio – ci ha fatto paura. Ma Paolo è chiarissimo: “questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio nostro salvatore, il quale vuole – ecco la volontà di Dio – che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità”. E qual è questa verità? Che “uno solo è Dio e uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini”, colui che ci rende possibile conoscere Dio così come è e non rimanere prigionieri delle nostre rappresentazioni. E’ l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Ecco a cosa serve una domanda fatta all’inizio dell’anno, di una vita quieta e tranquilla: serve per poter riconoscere chi è Dio e come siamo noi in rapporto a Lui ma serve anche per riconoscere e acquisire la volontà di Dio: che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità.

Questo è il compito che ci viene affidato: quello di compiere la volontà di Dio, quello di metterla in pratica, quello che, potremmo dire inizia con il desiderio da parte nostra di aderire a questa volontà di Dio, cioè di farla diventare la nostra volontà, il nostro orizzonte, il nostro giudizio, il nostro modo di pensare. Ecco dunque quale ricchezza ci svela una giornata come il primo settembre, così come ce la presenta la Chiesa d’Oriente e chiediamo alla fine l’intercessione di Maria, con questo theotokion, cioè un’antifona mariana, che si trova sempre nell’ufficiatura bizantina del primo di settembre: “Tu che sei l’artefice, l’ordinatore di tutto il creato e hai posto nel tuo potere i tempi e i  momenti, corona il ciclo dell’anno, Tu che sei pieno di compassione, con le benedizioni della Tua benevolenza, custodendo il tuo popolo nella pace, incolume e illeso. Ti supplichiamo, per l’intercessione di Colei che ti ha partorito e degli angeli divini”.

Alla Vergine, che è Colei che ha creduto nell’adempimento della parola del Signore, cioè nella Sua volontà, chiediamo di guidarci a entrare anche noi nella volontà del Padre, così come ci viene con questa ricchezza insegnata e dischiusa dalla sapienza della Chiesa.

 

(testo tratto dagli appunti della registrazione e non rivisto dall’Autore)

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